| Un 
                  viaggio nelle terre più occidentali della Cina, nello 
                  Xinjiang, a Kashgar, a 7 km dal confine chirghiso, nel cuore 
                  del terrorismo islamico cinese, nel centro dell'Asia, dove è 
                  rarissimo vedere per strada dei cinesi Han (l'etnia di maggioranza) 
                  e si è attorniati dai colori e dai profumi tipici del 
                  mondo arabo. Un posto in cui si tocca con mano quello che la 
                  Cina non è: non è "una d'arme, di lingua, 
                  d'altare, di memorie, di sangue e di cor", secondo la definizione 
                  manzoniana di nazione. Il 12 agosto Paolo mi chiede se sono disposta ad accompagnarlo 
                  nello Xinjiang perché il suo giornale vuole un reportage 
                  dal posto. Sono tentennante, le notizie su quell'area non sono 
                  particolarmente rassicuranti, ma è un'avventura a cui 
                  non riesco a dire di no quando il giorno dopo mi conferma che 
                  partiremo il 14. Non siamo nemmeno sicuri di come verrà 
                  accolta dalla polizia la visita di un giornalista, soprattutto 
                  considerando che pochi giorni prima si sarebbe dovuto recare 
                  in Tibet ma il suo volo è stato modificato dall'alto 
                  senza che lui venisse chiamato in causa: destinazione finale 
                  Chengdu, una bella città famosa per i panda, ma ben lontana 
                  da Lhasa.
 Chiamo, prenoto i biglietti aerei, prenoto l'albergo e avverto 
                  i miei amici che per due giorni non ci sarò, anche perché 
                  è sempre meglio che qualcuno sappia dove sono, trattandosi 
                  di una zona a rischio.
 La mattina dopo, levataccia alle 4.30, ci alziamo in volo alle 
                  7.45 lasciandoci alle spalle la città olimpica, in una 
                  giornata grigia e afosa, come la maggior parte di quelle che 
                  ci accompagnano in questa calda estate. In poco meno di quattro 
                  ore di volo arriviamo a Urumqi, la capitale dello Xinjiang, 
                  una delle province autonome della Cina, teatro negli ultimi 
                  mesi di attentati, bombe, accoltellamenti a opera del gruppo 
                  separatista Movimento islamico del Turkestan orientale, che 
                  rivendica l'indipendenza di questa area dalla storia lunga e 
                  complessa.
 Come ci spiega Qin - militare trentaduenne seduto accanto a 
                  me in aereo, originario dello Hunan - lo Xinjiang, con i suoi 
                  attuali 20 milioni di persone e una superficie cinque volte 
                  quella dell'Italia che la rende la più grande provincia 
                  cinese, ha fatto parte della storia della Cina dall'inizio. 
                  Al momento convivono almeno 13 etnie, tra cui Han, Uigiri, Mongoli, 
                  Manciù, e Chirghisi.
 Nel tentativo, durante l'epoca Tang, di tenere sotto controllo 
                  le spinte separatiste del Tibet, sono stati utilizzati proprio 
                  gli Uiguri, poi confinati in questa terra arida e poco ospitale. 
                  E ora, ironia della sorte, proprio questa minoranza si rivolta 
                  contro il governo centrale. Chiedo a Qin se secondo lui è 
                  sicuro andare nello Xinjiang, per la precisione a Kashgar, in 
                  questi giorni, lui dice che la situazione è tranquilla, 
                  che è sufficiente evitare le zone affollate. Poi cerco 
                  di farlo parlare, cosa pensa degli Uiguri, che tipi sono. La 
                  risposta è ambigua: ho amici Uiguri, ma non fanno giocare 
                  i propri figli con gli altri Uiguri per evitare che diventino 
                  come loro, sono dei selvaggi, non studiano e non vogliono studiare.
 La nostra chiacchierata si fa più leggera, parliamo della 
                  diversa concezione del tempo tra occidente e oriente: mentre 
                  in occidente la nostra vita è una continua corsa contro 
                  il tempo, un continuo ammazzare il tempo, riempire il tempo 
                  di cose più o meno utili, sport, passatempi obbligatori, 
                  per non sembrare dei fannulloni, qui in oriente si trova ancora 
                  quell'antica capacità di godersi il tempo che passa, 
                  di fermarsi a pensare, di adeguarsi allo scorrere naturale delle 
                  cose, secondo la migliore tradizione taoista. Anche se Qin sostiene 
                  che è il confucianesimo a tenere unita la Cina, pur convenendo 
                  con la sottoscritta che l'insieme di severe regole e riti ferrei 
                  non è molto adatto alla vita naturale dell'uomo.
 Tornando a parlare dello Xinjiang mi rimprovera amabilmente 
                  perché non ho studiato, perché "non si può 
                  andare a visitare un luogo tanto complesso senza conoscerne 
                  la storia, perché in questo modo non si può capire 
                  quello che succede". Una domanda azzardata da parte mia, 
                  gli Uiguri sono brave persone? La risposta si fa attendere, 
                  Qin ama lanciarsi in chiacchiere lunghe e particolareggiate, 
                  che acquistano un senso solo quando finalmente arriva al dunque, 
                  lasciandomi stremata nello sforzo di capire quello che mi racconta. 
                  Il mondo è un grande ecosistema, dove tutto ha un suo 
                  perché, ci sono cose che ci appaiono cattive, ma hanno 
                  una loro ragione di esistere. E la stessa cosa si ripete ovunque, 
                  in qualsiasi posto ci sono persone buone e cattive, anche nello 
                  Xinjiang. Alla faccia della diplomazia. L'unico momento in cui 
                  colgo una nota di critica nella sua voce è quando dice 
                  che nel campo dei diritti umani la Cina ha ancora tanta strada 
                  da fare, ma in fondo è ancora nel pieno dello sviluppo 
                  e in certe fasi qualche sbavatura è accettabile. Non 
                  condivido, ma non mi sento di dargli torto quando dice che la 
                  Cina ha cominciato il proprio sviluppo molto più tardi 
                  dei paesi occidentali e quindi non ci si può aspettare 
                  che riesca a risolvere tutto e subito.
 Un militare con le sue idee, quindi. Che chiacchiera a ruota 
                  libera, ma si rivela improvvisamente "timido" quando 
                  gli chiedo che studi ha fatto, si rifiuta di dirmelo e non ne 
                  comprendo il motivo. E poi aggiunge di sapere solo 2000 caratteri 
                  cinesi. Non gli credo, mi risulta difficile pensare che una 
                  persona colta e sveglia conosca meno caratteri di me.
 Arriviamo 
                    a Urumqi, un aeroporto abbastanza moderno, dove dobbiamo rifare 
                    il check-in. Dopo una breve sosta colazione e una pausa in 
                    cui noto che la porta del bagno per disabili è raggiungibile 
                    solo dopo aver fatto un gradino (!), ci presentiamo al controllo 
                    di sicurezza convinti che sarà una bazzecola, ne abbiamo 
                    già passato uno a Pechino. Ci sbagliamo. Oltre al metal 
                    detector ci perquisiscono, ci aprono le borse, qui i controlli 
                    sono molto più severi: nessun tipo di liquido può 
                    essere portato a bordo, nemmeno le bottigliette accettate 
                    in qualunque altro aeroporto. Ci fanno estrarre dalla borsa 
                    tutto il materiale contestato e mi rispediscono al check-in 
                    senza dire altro che: dovete spedirli, si porti dietro i soldi. 
                    Perché? mi chiedo, ma non discuto. Faccio la fila al 
                    check-in e dopo un'interminabile attesa dietro a una famiglia 
                    numerosissima con decine di borse da imbarcare, l'assistente 
                    di terra mi dice che ho fatto la fila al banco sbagliato. 
                    Cambio banco, ho una sola persona davanti, ma quello che voglio 
                    imbarcare è troppo piccolo, devo andare a comprare 
                    una scatola per poter spedire i nostri deodoranti e poco altro. 
                    Alla fine ce la faccio, imbarco la scatola dopo che l'assistente 
                    mi ha chiesto cosa contiene. Ripasso dal controllo di sicurezza 
                    (per lo meno mi fanno saltare la fila sotto gli occhi irritati 
                    degli altri passeggeri) e mi perquisiscono di nuovo. Riusciamo 
                    a imbarcarci.L'annuncio di benvenuto a bordo viene dato in cinese, in Uiguro 
                    e in inglese.
 Eccoci in volo, tra meno di due ore raggiungeremo Kashgar 
                    (Kashi in cinese), definita anche la Perla della Via della 
                    Seta. Lo Xinjiang confina a occidente (e Kashgar si trova 
                    nel profondo ovest di questa regione) con Kirgizistan, Tagikistan, 
                    Afghanistan e Pakistan, a sud con il Tibet.
 Non stupisce quindi sapere che nelle ultime settimane la zona 
                    è stata teatro di vari scontri, di un attacco in cui 
                    sono morti 16 poliziotti poco prima dell'inizio delle Olimpiadi, 
                    bombe in alcuni supermercati,un attacco terroristico sventato 
                    su un volo da Urunqi a Pechino. Pare addirittura che qualche 
                    anno fa Bin Laden si fosse rifugiato proprio qui.
 Per 
                    ora ci concentriamo sul paesaggio che scorre sotto ai nostri 
                    occhi sbirciando dal finestrino: finalmente un cielo azzurro 
                    punteggiato di bianche e soffici nuvolette, grandi distese 
                    di sabbia rossa del deserto Takla Makan, il cosiddetto mare 
                    della morte, e alte montagne innevate. Non mi stupisce leggere 
                    che da Kashgar vengono organizzate per i turisti gite al campo 
                    base del K2, anche perché qui vicino c'è il 
                    Muz Tagh Ata, la seconda cima più alta del mondo, il 
                    "padre dei ghiacciai".Questa volta il mio vicino di posto è meno loquace: 
                    viene dal sud, dal Jiangxi, anche per lui è la prima 
                    volta a Kashgar. Gli chiedo se crede che sia un posto sicuro: 
                    Sì, basta non uscire dall'albergo la mattina presto 
                    e la sera tardi, perché è in quei momenti che 
                    ci sono gli attentati.
 Dopo qualche turbolenza e gli inchini di commiato degli assistenti 
                    di volo, atterriamo in questo aeroporto sperduto nel nulla 
                    accompagnati dalla colonna sonora di "Ghost", Unchained 
                    melody, in stridente contrasto con un carico umano composto 
                    da cinesi e tre soli occidentali. Attorno a noi il deserto, 
                    un edificio in costruzione di cui vediamo solo la struttura 
                    e che sembra la versione futuristica di un qualche futuro 
                    terminal, usciamo dall'aereo avvolti dalla sabbia e accolti 
                    dai militari che arrivano fino in fondo alle scalette. Chiedo 
                    se possiamo scattare delle foto: sì, ma in fretta. 
                    Recuperiamo la nostra scatola con i preziosi deodoranti e 
                    saliamo a caso su un taxi che ci porterà all'albergo, 
                    a 15 chilometri dall'aeroporto.
 Sembra di essere stati catapultati in un altro mondo e in 
                    un'altra epoca. Strade che si snodano nel nulla, fiancheggiate 
                    da edifici di mattoni, carretti trainati da muli, visi arabeggianti, 
                    donne in maniche corte, donne con i capelli coperti, donne 
                    di cui si intravedono solo gli occhi dietro al niqab colorato, 
                    un uomo in motorino accanto a noi con un coltello alla cintura, 
                    un'insegna con una luna leggermente storta, o è forse 
                    una riproduzione mal riuscita del logo della Nike?
 L'albergo che ci aspetta, lo Yambu Hotel, non è male, 
                    abbiamo richiesto la connessione internet in camera e sorprendentemente 
                    c'è. Il vassoio egiziano in bagno non c'entra molto 
                    con l'ambiente, del resto è compensato dalla doccia 
                    con vista: basta sollevare una tendina ed ecco che la doccia 
                    rivela un'intera parete di vetro che la divide dalla stanza. 
                    Se a ciò aggiungiamo la scelta di "lavande intime" 
                    per aumentare il piacere di lei e lui e i profilattici in 
                    vendita, il pensiero sull'uso che viene fatto di queste stanze 
                    non è dei più piacevoli.
 Qui cominciano i primi problemi di comprensione: le cameriere 
                    al piano non parlano cinese. Non solo. Non lo capiscono nemmeno. 
                    Cerco in tutti i modi di farmi capire, non c'è verso. 
                    Lo stesso dicasi per il ristorante dell'albergo che proveremo 
                    più tardi e in cui ce la caveremo con poco più 
                    di 4 euro in due, ma in cui cinque camerieri non capiscono 
                    che vorrei semplicemente una bottiglia d'acqua.
 Prendiamo 
                    un taxi per andare al Gran Bazar, alla faccia dell'evitare 
                    i luoghi affollati. Un sogno. Una vera e proprio fiera dell'est, 
                    siamo inondati da profumi di spezie e storditi da arcobaleni 
                    di colori, stoffe, tappeti, cappelli da preghiera, copricapi 
                    di pelliccia, bancarelle di cibo, blocchi di ghiaccio che 
                    viene rotto per strada per fare gelati, frutta di tutti i 
                    colori.Il venditore di accessori di pelliccia prova a convincermi 
                    che i suoi prodotti sono genuini, brucia un po' di pelo per 
                    mostrarmi che non sono di plastica, continua a mettermi addosso 
                    sciarpe e cappelli, senza perdere occasione di strusciarsi 
                    addosso a me. Questa non è Cina, non è un paese 
                    arabo, non è Europa, anche se i lineamenti di quelli 
                    che mi circondano mostrano chiaramente influenze medio orientali, 
                    greche, armene, cinesi, europee, occhi bellissimi di donne 
                    di cui si può indovinare la bellezza dietro al velo, 
                    bambini biondi, uomini mediorientali. Provo a fare due chiacchiere 
                    con il cappellaio matto, che non fa che ridere. Sostiene che 
                    gli Uiguri non sono arrabbiati, che i cinesi non sono arrabbiati, 
                    che tutti i problemi sono a causa del Tibet. Poi aggiunge 
                    che ogni tanto la gente, anche qui a Kashgar, litiga, si litiga 
                    si litiga e a un certo punto "buuum". Ma sono solo 
                    pochi pochi pochi quelli arrabbiati.
 Prossima 
                    tappa la Moschea Idkah, fondata nel 1442 (anno Hegirae 862). 
                    Non sono sicura che sia necessario, ma mi copro la testa con 
                    un foulard prima di entrare, l'ambiente è tranquillo, 
                    poche persone attorno, qualche poliziotto in borghese, togliamo 
                    le scarpe per visitare l'area di preghiera. E all'uscita troviamo 
                    un tipico esempio di propaganda cinese: la mosche ristrutturata 
                    "mostra chiaramente che il governo cinese presta sempre 
                    particolare attenzione alle culture di tutti gli altri gruppi 
                    etnici e che questi accolgono con favore la politica religiosa 
                    del partito. Mostra anche che i vari gruppi etnici hanno stabilito 
                    stretti rapporti di uguaglianza, unità, e aiuto reciproco 
                    e che la libertà di culto è salvaguardata. Qui 
                    tutti i gruppi etnici convivono in pace. Collaborano per costruire 
                    una bellissima patria, appoggiano calorosamente l'unità 
                    dei vari gruppi etnici e l'unità del nostro paese e 
                    si oppongono al separatismo etnico e ad attività religiose 
                    illegali". Sarà per quello che è vietato 
                    l'accesso alla moschea ai giovani sotto ai 18 anni, visto 
                    che sono soprattutto loro i responsabili degli attentati? Sembra 
                    ancora presto, ma sono già le 7 di sera. Eppure è 
                    ancora chiaro. Colpa dell'orario unificato per tutta la Cina: 
                    il territorio è vastissimo, ma il fuso orario ufficiale 
                    è quello di Pechino. Non ci stupisce scoprire più 
                    tardi che però gli Uiguri utilizzano l'orario dello 
                    Xinjiang, 2 ore prima di quello di Pechino.Prendiamo un taxi per tornare in albergo, oltre all'indirizzo 
                    mostro al tassista anche la foto dell'albergo. E cerco di 
                    intavolare un discorso, lui capisce il cinese e lo parla, 
                    non perfettamente, ma è già qualcosa. Parliamo 
                    come se fossimo studenti del primo anno, solo parole essenziali 
                    con continui sguardi interrogativi e continue domande per 
                    assicurarci che stiamo capendo. I turisti stranieri sono diminuiti 
                    a partire da luglio, cioè dai primi attacchi terroristici. 
                    Abbiamo notato tanta povertà in giro, tanta gente che 
                    sembra bighellonare in giro e lui ci spiega che la disoccupazione 
                    a Kashgar è elevata, soprattutto tra gli Uiguri. Per 
                    quale motivo? Perché i quadri al potere sono tutti 
                    Han e a quanto pare appartengono tutti alla stessa famiglia, 
                    i lavori migliori sono riservati a loro. La polizia è 
                    sotto il loro controllo, tanto che quando qualcuno di etnia 
                    Han commette un'infrazione, non prende la multa, mentre agli 
                    Uiguri non vengono fatti sconti di questo tipo. Stiamo arrivano 
                    all'hotel, di fronte al quale è ferma una macchina 
                    della polizia che non c'era quando siamo usciti per il nostro 
                    giro. Chiediamo al nostro tassista di non fermarsi e di farci 
                    fare un giro, così possiamo continuare la chiacchierata. 
                    Ci racconta che meno di due settimane prima c'è stato 
                    un attacco di fronte a una caserma, in cui sono morti 16 poliziotti, 
                    ci chiede se ci interessa passare di lì. Io non noto 
                    nulla, anche se c'è una macchina della polizia ferma 
                    proprio lì davanti, ma ci vuole l'occhio allenato di 
                    un giornalista abituato a certe cose per notarla. Il tassista 
                    dimentica di avvertirci che dalla caserma tutto viene ripreso 
                    dalle telecamere, ce lo dice poco dopo, aggiungendo: per me 
                    non è un problema, forse per voi sì, però. 
                    Proviamo a indagare sui motivi degli attentati: i colpevoli 
                    sono quasi sempre giovani, perché sono loro ad avere 
                    i maggiori problemi, non da ultimo sul mercato del lavoro. 
                    In occidente, diciamo, si dice che il movimento indipendentista 
                    dello Xinjiang sia legato ad Al-Qaeda, lui cosa ne pensa? 
                    Intendete i talebani? Sì, sai, Bin Laden eccetera... 
                    No, non abbiamo nulla a che vedere con i talebani, però 
                    Bin Laden ci piace molto. E aggiunge: vi porto in un altro 
                    posto, ci vogliono pochi minuti? Il sospetto che ci voglia 
                    portare da qualche "amico", magari terrorista, è 
                    più che reale, non è il caso di rischiare di 
                    essere i primi occidentali rapiti nello Xinjiang, è 
                    giunto il momento di salutarci e di tornare in albergo, grazie 
                    della chiacchierata.
 La camionetta della polizia è ancora lì, il 
                    sospetto che siano qui per noi è alto. Ma probabilmente 
                    non ci notano rientrare, si aspettano di vederci arrivare 
                    in taxi, ma siamo scesi a un isolato da qui. A cena siamo 
                    attirati alla finestra dal chiasso di quello che sembra un 
                    matrimonio tipico: macchine adornate di fiori (in un caso 
                    un taxi!) precedute da camioncini carichi di ragazzi che suonano 
                    i tamburi, un inno tribale alla gioia del momento. E notiamo 
                    che la camionetta della polizia è ancora lì. 
                    Mentre lavoriamo in una stanza, sentiamo il telefono squillare 
                    nell'altra, non faccio in tempo ad andare a rispondere. Squilla 
                    anche in quella che stiamo usando, rispondo, riattaccano. 
                    Risquilla nell'altra, di nuovo non faccio in tempo. Quando 
                    vado a letto poco prima di mezzanotte squilla di nuovo il 
                    telefono, di nuovo riattaccano. Non riesco a dormire, sono 
                    agitata, volevano solo controllare che fossimo in camera? 
                    Sapere che qualche giorno prima dell'inizio delle Olimpiadi 
                    un gruppo di giornalisti giapponesi è stato malmenato 
                    dalla polizia non mi rende certo più tranquilla. Un'informazione 
                    che Paolo aveva omesso di condividere con me, quando mi ha 
                    chiesto di accompagnarlo per questi due giorni. Sul letto 
                    accanto al mio ho i vestiti pronti, e le scarpe ai piedi del 
                    letto, non si sa mai. A colazione la mattina dopo la camionetta 
                    della polizia non c'è più. E il gruppo di turisti 
                    australiani che pernotta nello stesso albergo non ha ricevuto 
                    nessuna telefonata notturna pur avendo dormito qui due notti. 
                    Sono reduci da due settimane di trekking sui monti dello Xinjiang 
                    e ci dicono che sono stati sempre accompagnati da una guida 
                    cinese, obbligatoria, che durante il trekking li ha aspettati 
                    per due settimane al campo base. Nulla sfugge all'occhio del 
                    grande fratello cinese. E i controlli doganali per loro che 
                    entravano in territorio cinese dal Pakistan sono stati ancora 
                    più ferrei: perquisizioni corporali, valigie aperte 
                    quattro volte e pannelli interni del pulmino smontati per 
                    controllare che non ci fosse nulla di nascosto.
 Tra poche ore torniamo a Pechino, un ultimo giro per la città 
                    per ammirare la più grande statua di Mao di tutto il 
                    paese. Incontriamo due ragazzi russi, sono arrivati da Mosca 
                    in autostop. E noi credevamo di essere eroici! E poi via, 
                    verso l'aeroporto, che quando arriviamo (poco prima delle 
                    2 di pomeriggio) è ancora chiuso, non ci fanno entrare 
                    perché non hanno ancora cominciato a lavorare. All'interno 
                    incontro di nuovo il mio vicino di posto del volo Urumqi-Kashgar, 
                    che mi dice che la mattina precedente, qualche ora prima che 
                    arrivassimo, ci sono stati alcuni attacchi alla stessa ora, 
                    sia in città che fuori, uno degli attentatori è 
                    rimasto ucciso. Per quanto sia affascinante toccare con mano 
                    il punto di incontro di tre diverse religioni (cristianesimo, 
                    islam e buddismo) e di culture e civiltà così 
                    differenti, non ci dispiace affatto lasciarci alle spalle 
                    questa città.
 
 
 
 
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